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36 e 1/2 - Impronte di me

  • Raffaella
  • 17 mar 2015
  • Tempo di lettura: 4 min

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Solo un minuto

09.36

Una goccia di pioggia si arrampica veloce sul vetro sudicio per raggiungere le compagne già riunite in rivoli spessi, piccoli laghi oblunghi, piegati su un fianco a seguire il senso del vento. Odore di cappotti, di lana, di capelli e di ombrelli bagnati, di corpi rinchiusi in pesanti involucri saturi d’umidità. Corpi che si pigiano, si annusano, comunicano chimicamente, chimicamente si rifiutano, si danno la nausea a vicenda. Sono in un ritardo pazzesco. Questo maledetto autobus non procede di un solo metro, bloccato in un traffico infernale. L’ansia mi fa sudare, sento la sciarpa incollarsi al collo, strangolarmi. I pantaloni si sono incollati alla plastica umidiccia del sedile. Sai che figura se, quando mi alzo, un alone sospetto mi cerchia il sedere. Non posso scollarlo, non posso allargarmi la sciarpa, legarmi i capelli, scostare la giacca, togliermi dalle ginocchia lo zaino stracolmo che mi trascino dietro. La gente mi soffoca, vorrei poter smettere di respirare quest’aria fetida e pesante che m’intossica i polmoni. La sento, quasi solida, penetrarmi le narici, graffiarmi la gola, ingolfarmi il petto, per poi passare ad avvelenarmi il sangue. Nulla di peggio del sangue avvelenato per incominciare la giornata. Mi servirebbe un filtro, una sorta di depuratore al carbone attivo da piazzare all’ingresso del naso. E per filtrare gli altri veleni? Quelli più subdoli, intendo, quelli che vanno direttamente a intossicare l’anima e i pensieri? Per quelli basterebbe forse un buon ricostituente dell’autostima, una specie d’impermeabile di consapevolezze che mettesse in salvo il cuore da certe tempeste impreviste e imprevedibili. Indosserò anche quello, prima o poi. La maturità me lo infilerà senza nemmeno darmelo a vedere, e, da un giorno all’altro, con quello addosso, mi ritroverò a ridere di certe fisime, paure e fragilità che oggi mi fanno sentire un’invalida in un mondo di validissimi superman e wonder woman. Certo è complicato, forse perfino un po’ ridicolo, aspettare la maturità a 35 anni suonati, ma, come dice mia madre, una donna è donna quando “tiene famiglia”, ed io “non la tengo”.

Semplice, no? In questo modo mi sembra che i conti, alla fine, tornino. Li faccio tornare sempre i conti, quelli aperti con gli altri e con me stessa, li faccio tornare comunque e ovunque, li faccio tornare per sentirmi serena, per darmi un contegno, per trovare la forza di vivere e di sperare che da quest’autobus affollato, presto o tardi, scenderò o saranno gli altri a lasciarmi un po’ più spazio.

Scendete tutti, allora. Ridatemi un po’ d’aria. Sono stanca di respirare le vostre malattie, i vostri malumori, la vostra noia.

Zitti tutti. Ridatemi un po’ di silenzio. Le mie orecchie sono stanche. Non riesco a distinguere una sola parola di quelle che dite. E’ tutto confuso, soffocato dal rumore dei motori impazziti, della pioggia che continua a scrosciare su questa lattina arancione. Sono convinta che nemmeno fra voi riuscite a capirvi.

Ok, non fate silenzio voi? Faccio silenzio io, qui, dentro di me. Vi lascio tutti fuori, riprendo a inseguire le gocce di pioggia sui vetri luridi, i laghi che si allungano, si uniscono e si dividono come cellule fecondate. In due laghi vedo specchiarsi i miei occhi, intrusi molesti nella danza che l’acqua intreccia col vento. Voyeur di riflesso dei suoi giochi inconsapevoli, nella goccia m’insinuo, mi deformo, scivolo lenta sull’immagine della gente alle mie spalle, la sfioro, la carezzo, le passo addosso senza toccarla. Un viaggio virtuale con la pioggia, un cammino che lentamente, soavemente, fatalmente, mi conduce ai tuoi occhi. Sono là, fermi in una goccia, intrappolati in un lago di passaggio. Non so chi sei, non so cosa fai, cosa guardi, cosa pensi. Uno sconosciuto che vive in un lago capitato per caso sul percorso dei miei occhi. Potrei voltarmi, cercarti fra la gente, ma non so nemmeno se ti riconoscerei. Che storia raccontano quelle piccole rughe che ti addolciscono lo sguardo? Lo chiedo all’immagine dei tuoi capelli arruffati, delle tue labbra sottili, della mutevole espressione del tuo viso un po’ stanco. Chi sei tu, straniero, che hai fatto impigliare i miei occhi in una rete irreale di sensi? Curiosa, riaccesa, inaspettatamente, inspiegabilmente felice. Sei accanto a me in un riflesso, virtuale compagno di crociera, mio complice in questa surreale mattinata di follia urbana. Sento emergere dal mio silenzio un suono chiaro, pulito, è il tuo respiro, il soffio della tua vita che raggiunge la mia. Adeguo il mio respiro al ritmo del tuo respiro, i miei polmoni prendono a riempirsi e poi svuotarsi insieme ai tuoi. Sono finita, per caso, a un passo dalla tua esistenza, straniero, e in un’epifania inspiegabile, sento di appartenerle in pieno. Invito i tuoi occhi a una danza sensuale sulle note dei tergicristalli: li avvolgo, li stringo, li lascio ondeggiare dolcemente contro i miei. Li metto alla prova: mi allontano, poi ritorno e li trovo ancora lì, pronti ad accettare l’invito, a unirsi ai miei nel gioco eccitante che ora conduciamo insieme.

D’improvviso buio. I tuoi occhi si dileguano.

Ma dove sei finito?

“Scusami, ti è caduta quest’agendina dalla borsa”... e sei tu.

09.37.

 
 
 

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