Review: "Suite Francese" by Irène Némirovsky
- ormedinchiostro
- 25 feb 2016
- Tempo di lettura: 3 min

Aveva meno di quarant'anni, Irène Némirovsky, quando fu deportata ad Auschwitz.
Nei mesi che precedettero il suo arresto compose febbrilmente i primi due romanzi di una grande "sinfonia in cinque movimenti" che doveva narrare le vicende della Francia sotto l'occupazione nazista durante il secondo conflitto mondiale. Un progetto ambizioso, sfortunatamente mutilato, che ha dato comunque vita a due straordinarie narrazioni, tanto piu’ struggenti quanto piu’ ci si immedesima nella storia personale della sfortunata autrice.
Nata a Kiev, figlia di un banchiere ebreo, la Némirovsky già aveva conosciuto il dramma della fuga ai tempi della rivoluzione russa del 1917. Rifugiata in Francia aveva trovato l’amore, sposandosi nel ’26 con Michel Epstein, e il successo come scrittrice. Madre di due figlie, conduce un’esistenza piacevole e agiata fino al tragico epilogo nel campo di sterminio. Sarà dalle mani del padre, in seguito vittima della stessa fine, che le due bambine riceveranno il manoscritto con le due prime parti del romanzo. Vivranno nascoste, affidate a una tata, per tutto il periodo bellico. Denise, la piu’ grande, intervistata in una trasmissione radiofonica di Rai tre, ha recentemente ricordato come lei e la sorellina avessero atteso il ritorno dei genitori, sperando di rivederli tra i sopravvissuti ai campi di sterminio, e come per molti anni non avessero avuto il coraggio di leggere quelle quattrocento pagine di un romanzo in cui verità e finzione si sposano in un inscindibile e commovente connubio.
Il primo movimento della “Suite française”, intitolato “Temporale di giugno”, sembra scritto in presa diretta con gli avvenimenti dei primi bombardamenti su Parigi, con la fuga precipitosa degli abitanti atterriti per l’arrivo dei tedeschi nella capitale francese nel giugno del 1940. Nessun giudizio da parte della scrittrice, solo una cronaca, una carrellata di personaggi in fuga. Non troviamo nessuna scena di battaglia, se non quella della vita quotidiana, degli estenuanti viaggi in auto per i più abbienti e dell’immensa fiumana dei francesi a piedi, che assistono stralunati ai giganteschi ingorghi di mezzi, in un tumulto di bagagli e notizie contrastanti. Incontriamo in questo caos la famiglia borghese dei Péricand, paradigma della buona borghesia francese, squallidamente conformista, lo scrittore Gabriel Corte, un esteta preoccupato dei suoi manoscritti che ha orrore della povertà, i coniugi Michaud, saggi e dignitosi nella loro modestia e dolcezza, il collezionista di preziose porcellane, preso solo dal salvataggio dei suoi oggetti. Fra note ora indulgenti ora crudeli, l'autrice fa un ritratto di un popolo che subisce un’invasione e va allo sbando, perdendo la sua umanità: “...in tutti, ricchi o poveri che fossero, confusione, viltà, vanità, ignoranza! Un bel popolo siamo!”.
Il secondo movimento della suite è “Dolce”. Qui riappaiono brevemente i coniugi Michaud, gli unici capaci di mantenere il calore della loro umanità, ma vera protagonista è la storia d’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua abitazione, Bruno von Falk. Lucile vive con la suocera, la vedova Angellier, e non sa piu’ nulla del marito partito in guerra. Tra il giovane ufficiale ventiquattrenne e la sconsolata Lucile, scocca una scintilla di comprensione che presto diventa amore. I due non osano però incontrarsi e parlarsi. La suocera tiranneggia Lucile e la costringe a nascondersi, fino a che, un giorno che rientra inaspettata, coglie i due in atteggiamento affettuoso, coinvolti dalla dolcezza della musica suonata dall'ufficiale sul pianoforte di famiglia. È troppo: la vecchia si ritira nelle proprie stanze e dichiara di non volerne uscire più. Il rapporto fra i due giovani non ha implicazioni fisiche, è fatto di un dolce sentimento, di un’intesa intellettuale e spirituale, un’affinità così coinvolgente da far dimenticare alla donna e a noi stessi che il tedesco è il nemico.
La sinfonia si è interrotta … Resta vivo il rammarico dell’opera incompiuta. I riconoscimenti giunti postumi evocano la malinconica immagine delle medaglie d’oro appese al petto degli orfani dei caduti in guerra. E, su tutto, colpisce drammaticamente il rispetto della Nemirowsky per coloro di cui sarà vittima. Laddove appare caustica la rappresentazione dell’ebreo, severa e a tratti dura quella del francese, del tedesco sottolinea l’umanità, la necessità dei comportamenti dovuti al contesto bellico: “Nemici? Certo... Ma uomini, e giovani...”. Nessun riferimento ai crimini di guerra dei soldati della Werhmacht, pochissimi alla persecuzione degli ebrei. E’ il canto di una Francia, sottomessa al nemico, fiera solo in apparenza, come se, in pugno alla Germania, si sentisse al sicuro da pericoli forse maggiori, come se, perse la propria identità e la dimensione umana, volesse ritrovarle giusto nel popolo invasore.
“La certezza della mia libertà interiore, questo bene prezioso, inalterabile,e che dipende solo da me perdere o conservare. La convinzione che le passioni spinte al parossismo come capita ora finiscono poi col placarsi. Che tutto ciò che ha un inizio avrà una fine. In poche parole, che le catastrofi passano e che bisogna cercare di non andarsene prima di loro, ecco tutto. Perciò, prima di tutto vivere: primum vivere. Giorno per giorno. Resistere, attendere, sperare.”
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