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36 e 1/2 - Impronte di me

  • Raffaella
  • 2 giu 2015
  • Tempo di lettura: 8 min

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A spasso con Platone

Uno spiraglio della porta dello studio mi porta l’immagine della mia donna alla tenue luce di una lampada da tavolo, lo sguardo chino sul laptop che riflette un’aura azzurrognola sul suo viso. E’ bella Stella. Peccato che non ci sia quasi mai. Stella è sempre impegnata, fa l’avvocato, è brava, giovane e molto stimata dai colleghi. Sono fiero di lei, orgoglioso che sia mia moglie. Non di rado, per certe udienze importanti, prendo giorni di ferie, solo per il piacere di sentirla parlare, di bearmi di quella voce sicura, moderata, convincente. Stella va sostenuta, incoraggiata, ammirata, rassicurata, aiutata. E’ una donna speciale, merita di avere un enorme successo nella vita. La amo da sempre.

Come ogni sera, ormai da quattro anni, abbiamo consumato in fretta una cena dietetica, salutare e preconfezionata. Poi, lei di filato nello studio, io sul divano a guardare qualche noiosa trasmissione in TV, in attesa che il sonno chiuda le porte di un’altra giornata.

Certe volte, sempre più spesso ultimamente, penso a come sarebbe la nostra vita se avessimo dei bambini, se al posto di questa penombra e di questo denso silenzio le nostre troppe stanze fossero invase di luci e voci gioiose. So di essere pronto a questa esperienza, sento di avere tanto da dare a un figlio in termini di affetto, di certezze, di sicurezza economica. Ma per Stella è ancora presto, lei deve ancora realizzarsi nella professione, e, il solo parlargliene, mi fa sentire un perfetto egoista per il turbamento e l’agitazione che l’argomento provoca in lei.

Meglio evitare la questione, vero Platone? Ma che ora è che già mi guardi con quegli occhioni imploranti? Le 10:45? Hai ragione. Su, prendi il guinzaglio, avviso Stella e andiamo fuori a fare due passi.

Platone, non tirare.

Saltelli felice fra i miei piedi, irrori un paio di alberi del viale deserto, cammini al mio fianco annusando il vento tiepido di questa sera di primavera. Basta così poco per farti felice: un’abbondante ciotola di croccantini, un bagnetto tiepido ogni tanto, una breve passeggiata lungo il viale, qualche carezzina sulla testa, un gatto da inseguire. Prendi me al guinzaglio stasera, porta me a spasso per una volta, vediamo un po’ cosa si prova a guardare il mondo dai trenta centimetri, a gioire di affetti fugaci e cose semplici, a sentire la libertà sotto le zampe, su questo marciapiede sporco di passi e cicche.

“Un biscotto”- Alzo gli occhi. Assorto com’ero nei miei pensieri, non mi ero accorto di lei. A qualche metro da me una vecchia trasandata, mal odorante, abiti sporchi e rattoppati, le scarpe diverse l’una dall’altra, i capelli bianchi, stopposi, sparsi disordinatamente sulle spalle, due occhi minuscoli, fissi sull’asfalto, che sembrano sprofondare in un viso segnato da un intrico di rughe e pieghe. Sta seduta alla fermata dell’autobus, in un angolo buio, tiene stretti a sé dei sacchetti di plastica colmi. “Un biscotto”- ripete con voce appena udibile. Non è da me, io diffido degli estranei, normalmente mi tengo a distanza, fingo indifferenza per evitare noie e complicazioni, ma il vento gira in modo strano stasera, la notte sembra stregata, e mi avvicino. Platone le annusa i piedi, poi punta i sacchetti. “Vuole dei biscotti?” – le chiedo piegandomi dal mio metro e novanta fino alla portata dei suoi occhi.

“No. Volevo solo dire che un vecchietto oggi è stato così gentile da darmi dei biscotti”. Parla in dialetto stretto, la capisco a malapena. “Cosa porta in quei sacchetti?” – le chiedo. “Un po’ di cose da mangiare. Chi mi porta del pane, chi della pasta. Chi mi da’ dello zucchero, chi della frutta, chi vestiti, pentole, scarpe, saponi e tante altre cose preziose. Le persone sanno essere davvero generose, sai? E così, la sera, torno a casa mia con le buste piene di tesori!”

“Ma dove abiti?”- senza accorgermene, sono passato a darle del tu, come a una vecchia amica, come a una bambina smarrita. “In periferia. Ho una bella casa, sai, negli alloggi popolari. Carino il tuo cagnolino.” – “Si chiama Platone. Ma non sono pesanti quelle borse che ti porti dietro?” – “Macché’! Ho ottantadue anni, ma non sono una rammollita. Sto in giro tutto il giorno a raccogliere tutto quello che i miei amici mi regalano. Con la pensione minima non si vive mica bene, devo arrangiarmi in qualche modo” – “Non c’è nessuno che ti aspetta a casa?” – “Non più. Ho avuto tanti fidanzati nella mia vita, qualche compagno di passaggio ma ora non c’è più nessuno. Quattro gattini affamati che, a quest’ora, mi staranno già aspettando dietro la porta.” - riflette un attimo in silenzio – “Penso che sia bella la vita, sai? Prima avevo sempre bisogno di qualcuno e mi sentivo sempre sola. Ora so di non avere bisogno di nessuno e sola non mi sento mai. Come potrei sentirmi sola in una città come questa? E’ bella la gente, sono belle le strade, i cani, i piccioni e gli autobus e tutto quello che mi aspetta domani. E tu? Sei solo tu?” – Stella, penso. No, non sono solo, c’è Stella. “Sono sposato. Anzi, mia moglie a quest’ora si starà chiedendo dove sono finito, sarà preoccupata per me. Ciao, nonna. Buona fortuna” – “Dio ti benedica!”

Tiro via Platone che non vuole saperne di staccare il naso da quei sacchetti pieni di cibo. Rientriamo a casa. Faccio piano: Stella non mi aspetta, non è in pensiero per me. Stella è già a letto, sprofondata nel sonno dei giusti. Le scivolo accanto senza fare rumore. Povera piccola, doveva essere stanca morta. Domani le racconterò del mio incontro.

Anzi, forse non le racconterò niente.

Ma che stupido, avrei potuto portare anch’io alla vecchietta qualcosa da mangiare, avrei potuto tirar fuori l’auto dal garage e accompagnarla a casa, avrei potuto…Ma sono qui, come ogni notte, in un letto troppo grande per incontrarsi con qualcuno, a riempire borse di congiuntivi ed enormi sacchi di condizionali.

Mi capita a volte di ripensare a quella strana notte. Chissà che fine ha fatto la vecchietta, sono passati tanti mesi ormai. Platone ed io ripercorriamo quella strada nelle nostre passeggiate notturne; lui, specie nei primi giorni dopo l’incontro, si fermava spesso ad annusare quell’angolino buio del viale, come se lei, sempre più piccola, potesse ancora annidarsi là o potesse aver lasciato qualche regalino per noi due, un messaggio, una traccia da seguire per ritrovarla, ma non ha trovato mai nulla. Il mio Platone, è un po’ come me, non dimentica. Certi eventi, anche apparentemente banali o manifestamente stupidi, si fissano nelle nostre memorie e possono venire a galla a loro piacimento, in qualsiasi momento, senza preavviso, restituendoci immagini che magari ritenevamo perdute per sempre. Quella vecchietta. Sono certo che, come me, lui non l’ha mai scordata.

Le nostre vite, intanto, scorrono come sempre. Lui, Stella ed io: stessi giorni, stesse sere, stesse stanze, stesse cene, stessi guinzagli ben legati al collo e qualche museruola in più per evitare di parlare troppo e mordersi senza ragione alcuna. Ognuno la sua cuccia, ognuno la sua bolla di pensieri con pareti sempre più spesse e dure. Cercando di non urtarci, rischiamo di non sfiorarci neppure. E’ come se camminassimo sempre in punta di piedi, parlando a bassa voce, scegliendo con cura i gesti, gli sguardi e le parole, mentre silenzi sempre più pesanti e vuoti dilagano padroni delle nostre vite. Una lista nera, frutto di una tacita intesa, raccoglie gli argomenti vietati nelle nostre conversazioni. Peccato che non siano argomenti stupidi o banali: sono i nostri sogni, quelli che non si incontrano, sono le nostre voglie, quelle che ci feriscono, sono i nostri desideri più profondi, quelli che ci forziamo di ignorare facendo sì che il trovare un equilibrio, da mezzo, sia divenuto il solo scopo della nostra vita insieme.

Eppure ci amiamo ancora. Impossibile pensare la mia vita senza lei, riuscire a concepire un solo giorno senza il tocco delle sue labbra, senza la sua carezza del mattino sulle mie guance ispide o la sicurezza delle sue gambe che mi sfiorano sotto le lenzuola.

Che ci succede, Platone? Verso il fondo di quale pozzo stiamo scivolando? Davvero la mia voglia di famiglia e i suoi sogni di carriera possono creare quest’abisso fra di noi? Mi guardi interdetto, pieghi la testina un po’ di lato. Forse non capisci, forse mi stai solo prendendo in giro, pensando che noi umani siamo troppo complicati: ma davvero un desiderio esclude l’altro? E’ come se non ci fidassimo più uno dell’altro, come se avessimo paura di perdere le nostre individualità affidando all’altro i nostri sogni. Non era così fra noi, era tutto facile prima, facile ridere, facile incontrarsi, scontrarsi, litigare, fare a botte, fare pace, fare l’amore senza avere paura di farsi del male.

Andiamo cucciolotto. Siamo soli questa sera. Concediamoci il piacere di una pizza fra noi uomini duri.

In una sera umida io e te su una panchina scarabocchiata del viale, dividiamo in due una pizza ed una mezza birra. La gente che ci vede un po’ ride, un po’ prova pena, un po’ s’intenerisce della nostra solitudine. Aspettiamo che sia buio e, con la testa che un po’ gira, zampe e piedi che s’intrecciano, ritorniamo verso casa senza che un solo pensiero sia affogato a dovere dentro il luppolo o la mozzarella. Come per accordo tacito, per comuni onde di ricordi, i nostri musi puntano quell’angolino buio alla fermata dell’autobus, tanto caro alla memoria.

E stavolta c’è qualcosa che ci aspetta.

Inorridito distolgo subito lo sguardo, un conato di vomito mi sale dallo stomaco alla testa. Tu, mosso dal tuo istinto di animale, vorresti invece andare a curiosare e tiri come un forsennato. Proprio all’angolo, un piccione morto, la gola squarciata, e le piume incollate da sangue nero raggrumato, occupa il posto della nostra vecchietta. Emana un odore fortissimo, disgustoso. La testa mi gira, mi sento svenire. Do uno strattone forte al tuo guinzaglio, ti trascino via con modi assai villani, prima di cominciare a vomitare nel mezzo della strada, o peggio, di perdere i sensi come un idiota. Perché mi accade questo, anche questo? Non oggi, non ora, non con questo piombo fuso che già mi opprime il petto e mi rende faticoso perfino respirare. Andiamo via, Platone, andiamo a casa. Ne ho abbastanza di tutto quest’orrore.

Allungo il passo, mi metto a correre a perdifiato. Voglio Stella, voglio aria, voglio vita, voglio riprendermi la nostra storia e farne luce in ogni angolo della nostra casa. Voglio parlare, gridare, aprirle il mio cuore come non faccio da anni e obbligarla ad ascoltarmi. Ripercorrerò con lei i passi della nostra vita, e con lei recupererò tutti i nostri sogni, i valori in cui credevamo, la leggerezza di quando eravamo giovani e disperatamente, ottusamente, felici.

Corri, cane, corri veloce non ho un solo attimo da perdere lungo questa strada insulsa. E Platone corre, mi segue, zampe piegate di lato, orecchie dritte e lingua a penzoloni.

Stella è tornata, è lì, la ritrovo nella nostra stanza dove l’avevo lasciata un secolo di solitudini fa’. Ho solo voglia di abbracciarla, d’inebriarmi del suo odore, di perdermi di nuovo senza vincoli nel mare calmo dei suoi occhi puri. Mi dice che una colomba ha fatto il nido sulla finestra del bagno. Le chiedo se vuole che la cacci via, che prenda la scala e ripulisca tutto. Mi dice di lasciarla, di non toccare nulla, che è bello avere un nido fuori e … dentro casa. E me lo dice con una luce nuova dentro agli occhi, un luccichio mai visto prima, con un sorriso che riempie di dolcezza ogni angolo del suo viso. Mi sfiora un braccio: “Ridipingiamo la stanza degli ospiti. Vuoi? Magari di un colore che concili bene il sonno di un neonato”.

Gabriella è il nome che abbiamo dato alla nostra nuova inquilina pennuta, “Dio ha mostrato la sua forza”, è la nostra personale messaggera di speranza. Amo pensare che sia lo spirito coraggioso della nostra vecchietta che, con un pugno allo stomaco, mi ha riaperto gli occhi su un destino che sa riservarmi ancora cento, mille, splendidi, sacchetti gonfi di regali in cui posso, anzi ho l’obbligo di rovistare a piene mani.

 
 
 

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